ORNOLAC, NEL PAESE DI FOIX
La valle del Sabarthès, dove mi sono installato per il momento, è stretta, d’aspetto assai romantico, circondata da alte falesie di calcare fra le quali si aprono la via le acque selvagge dell’Ariège. Questo fiume scende dalla regione del colle di Puymorens – colle molto battuto, all’altezza del quale la strada proveniente da Tolosa si biforca verso l’Andorra e verso la Catalogna e si precipita nella vallata, saltando le rocce, formando in alcuni punti magnifiche cascate, in una trasparenza di cristallo. L’Ariège raggiunge così Ax-les-Thermes, l’antica stazione termale di cui già i Romani apprezzavano le acque sulfuree. Nel Medio Evo i crociati che rientravano dalla Palestina venivano a rinfrancarvi le membra smagrite da tante privazioni, sperando anche di guarirvi dalla lebbra. Accanto alla felicità eterna promessa dalla Chiesa, la cura della loro salute e il desiderio di vivere il più a lungo possibile non parevano loro completamente trascurabili…
Al di sotto di Ax-les-Thermes, guardando verso nord-ovest, si vede l’Ariège – torrente sempre impetuoso – bagnare con la sua schiuma i contrafforti del picco di Saint-Barthélemy e del picco di Montcalm, separati l’uno dall’altro da una gola cupa. E’ là che si trovano i villaggi di Verdun, Bouan, Ornolac, la stazione termale di Ussat, la piccola città di Tarascona, così pittoresca (ma meno celebre di Tarascona sul Rodano!), ed infine Sabart, luogo di pellegrinaggio un tempo assai frequentato e che ha perso d’importanza appena nel secolo scorso, con lo sviluppo del santuario di Lourdes. E’ il villaggio di Sabart che ha dato il nome al Sabarthès. Poi l’Ariège continua il suo corso in direzione nord verso le città di Foix, Pamiers e Tolosa, per gettarsi nella Garonna e scorrere con lei verso la Biscaglia.
Ho percorso in senso contrario lo stesso cammino intrapreso, durante la notte delle Palme del 1244, dai quattro coraggiosi catari che salvarono il misterioso “tesoro” della loro Chiesa dopo la caduta di Montségur. La “strada dei catari” – essa ha conservato questo nome – comincia vicino al villaggio di Ornolac, dove risiedo, e si arrampica con tornanti e giravolte varie sull’altopiano di Lujat, contrafforte del picco Saint-Barthélemy. In alcuni punti le pareti verticali del Lujat cadono a picco verso il Sabarthès. Questo altopiano è coperto, a perdita d’occhio, da folti cespugli di biancospino e siepi di more. Vi ho scoperto una costruzione a volta di cui non immagino quale potesse essere l’utilità. Forse è servita da rifugio temporaneo ai catari che si recavano dal Sabarthès a Montségur e che avevano bisogno di riposarsi un poco prima di affrontare lo scenario impressionante di queste montagne, dove le rocce che si succedono le une alle altre scalano disordinatamente il picco fino ad un’altezza di tremila metri.
Non si può fare a meno di ammirare la cura e la prudenza con cui la strada dei catari è stata disposta. Spesso, quando si crede che il cammino stia per interrompersi, si scorge un ponte, fatto di grossi tronchi d’albero puntellati con dossali, gettato al di sopra dell’abisso.
A condizione di essere resistenti e poco inclini alle vertigini, si può così raggiungere, dopo qualche ora di ascensione, la sommità del Thabor – è così che i contadini dei Pirenei chiamano il Saint-Barthélemy.
Da lassù, se le nubi non lo nascondono alla vista, si può scorgere, nelle vertiginose profondità, la meta da raggiungere: la piramide rocciosa di Montségur coronata dal suo castello e, più lontano, la Sierra Maladetta.
Sulla sommità del Thabor giacciono i resti informi di un tempio dedicato a Belis o Abeilio, e le rovine di una specie di posto di osservazione, costruito con i materiali del tempio, che fu, pare, distrutto durante una tempesta. Ne restano soltanto le basi e qualche pietra squadrata. Mentre scendevo verso Montségur, attraversando la Val de l’Incant (la valle “magica” o dell’”incantesimo”?) ho ucciso una pericolosa vipera sulla quale avevo camminato senza vederla. Essa sera drizzata, pronta a mordermi…
Fra le numerose grotte del Sabarthès – alcune delle quali sono fortificate – ve ne sono due che mi attirano particolarmente: quella di Lombrives e quella di Fontanet (chiamata anche Font santa, la fontana santa). Esse si aprono nel calcare della montagna, per una lunghezza di parecchi chilometri. La decorano meravigliose stalattiti. Alla luce della lampada ad acetilene di cui mi servo abitualmente, vedo brillare e scintillare il marmo e il cristallo. Osservo sulle pareti sculture, incisioni, iscrizioni, segnali, mentre dal fondo degli abissi odo levarsi il rumoreggiare dei fiumi sotterranei che si aprono a fatica un cammino attraverso lo spessore della roccia. Di tanto in tanto pozzi senza fondo mi costringono a fermarmi. Il pericolo rende i miei passi più esitanti, ma vi concorre anche il timore di schiacciare delle ossa umane. Dai tempi in cui il solo mobilio dell’umanità consisteva in armi e in utensili di pietra, gli uomini hanno abbandonato queste grotte. Molti si sono addormentati qui per sempre.
La grotta di Lombrives è la più vasta di tutte, e quella che conta il maggior numero di ramificazioni. Essa racchiude nel suo seno un’immensa sala alta più di ottanta metri, chiamata la Cattedrale. E’ una delle più importanti gleisas sotterranee (le “chiese” catare ricavate nelle grotte portano ancora oggi il nome di gleisas).
La grotta di Fontanet è anch’essa una gleisa e ha certo visto celebrare i riti catari. All’interno si scorge l'”altare”, una stalattite di stupefacente bellezza. Le pareti della sala in cui la natura l’ha posta, che dovrebbero essere chiare, sono nere per il fumo. Queste tracce nerastre iniziano sopra il suolo, ad altezza d’uomo: esse possono essere state prodotte solo da torce. E si può fare l’ipotesi che appunto rischiarandosi in tal modo gli eretici occitani celebrassero nelle grotte la loro suprema cerimonia: il consolament (la “consolazione”).
Wolfram von Eschenbach, nel suo libro, ha parlato di una grotta simile. Prima di trovare la Salvezza e il Graal, il suo eroe Parzival si fermò presso l’eremita Trevrizent in una caverna vicina a Fontane la Saivasche. Trevrizent lo condusse davanti all’altare e lo coperse con una veste speciale: simile a quella che vestivano anche i catari a Fontanet quando ricevevano l’ordinazione davanti all’altare. La concordanza è significativa.
La grotta di Lombrives è ugualmente associata alla leggenda del Graal. Dal fondo della “cattedrale” uno scalone di pietra conduce nella parte superiore del lugubre labirinto, all’estremità del quale si aprono abissi profondi parecchie centinaia di metri. Li sovrasta a strapiombo un’enorme roccia, che le acque ruscellanti hanno scolpito, come per magia, in forma di clava. I contadini sono convinti che là si trovi la tomba di Ercole, almeno di quell’Ercole che Wolfram von Eschenbach ha celebrato come un profeta del Graal. Ecco la leggenda che essi raccontano: in tempi remotissimi, il re Bebryx regnava a Lombrives in un castello sotterraneo. Un giorno, Ercole passò di là e il re gli offrì ospitalità. Bebryx aveva una figlia chiamata Pyrene. Ella s’innamorò dell’eroe e ne fu ricambiata. Ma Ercole era di temperamento avventuroso, e voleva andare sempre più lontano, attirato com’era dall’immensità: ben presto lasciò il palazzo del re. Pyrene, che portava un figlio in grembo e temeva la collera del padre, partì alla ricerca dell’amante, di cui era tuttora invaghita. La povera donna indifesa fu attaccata da belve feroci che la sbranarono; ella chiamò Ercole in aiuto, con tutte le sue forze. L’eroe udì le sue grida e tornò sui suoi passi. Ma era troppo tardi: Pyrene era morta. Egli pianse, e le montagne risuonarono dei suoi lamenti così come le rocce e gli antri delle vicinanze. Ercole seppellì Pyrene nella grotta e non potè mai dimenticarla: i Pirenei porteranno per l’eternità il nome della sua amata.
All’interno della grotta di Lombrives, vicino a un lago, si notano altre tre stalattiti: una si chiama il trono di Bebryx, l’altra la tomba di Bebryx, la terza la tomba di Pyrene. L’acqua vi gocciola continumente come se la montagna piangesse la morta figlia del suo re. Subito accanto, sulla parete, verso il soffitto, sono sospese le vesti con cui ella amava abbigliarsi quando viveva: sono drappi di pietra.
Si dice qui che Pyrene fosse la dea Venere stessa.
Fra tutte queste grotte non si potrebbe dire quale sia la più bella, la più meravigliosa. Se volessi raccontare tutto ciò che mi ci è capitato, mi toccherebbe scrìvere un intero libro. Ho spesso rischiato la vita esplorandole, ma alla fine ho sempre rivisto, sano e salvo, la dolce luce del sole. E non ne sono quasi mai ritornato senza portarmi dietro qualche reperto. Il turista che visita il Sabarthès potrà farsi mostrare ad Ornolac tutti gli oggetti che ho raccolto. Ma le altre cose che ho scoperto – e che mi sono particolarmente care – i disegni, le iscrizioni (alcune molto antiche, altre quasi moderne), ebbene, soltanto io posso condurre al luogo in cui sono. L’iscrizione più recente è forse quella in cui un giovane sconosciuto domanda a Dio “perché gli ha carpito sua moglie e la madre dei suoi figli”. Un’altra, datata 1850, attende sempre una risposta: “Che cos’è Dio?”. In un altro punto si legge: “Mi nascondo qui: sono l’assassino dell’avvocato Labori” (questo Labori, avvocato, fu il difensore di Emile Zola, il celebre romanziere di Roma e Lourdes; se non mi sbaglio, uno sconosciuto esplose contro di lui un colpo di revolver, a Rennes, nel 1899). Lo stesso Enrico IV, il re ugonotto, non ha disdegnato di affidare la sua firma alla parete della caverna, nel 1576. Quarant’anni più tardi doveva essere assassinato a tradimento da un fanatico cattolico, Ravaillac. Enrico IV era un discendente di Esclarmonda di Foix, la cui tomba, sconosciuta fino ad oggi, potrebbe benissimo trovarsi accanto ai fantasmi di pietra sotto i quali si dice che riposino Ercole e Pyrene.
Naturalmente, sono state le testimonianze dell’epoca albigese che mi hanno maggiormente commosso. Ve ne sono molte, ma è difficilissimo scoprirle. Sono passato per tutto un anno, senza vederla, davanti all’immagine che una mano càtara ha tracciato con il carbone sulla parete di marmo e nell’eterna notte della caverna, sette secoli fa: essa rappresenta una nave dei morti che ha per vela il sole, il sole che dispensa la vita e rinasce ogni inverno! Proprio accanto a questo disegno ho trovato, rovistando nella sabbia, delle ossa umane carbonizzate. I catari incenerivano i loro morti? Questi resti non sono quelli di una sventurata vittima dell’Inquisizione romana, poiché si sa che gli inquisitori disperdevano le ceneri di coloro che facevano perire sui roghi.
Ho visto anche un albero – l’albero della vita – disegnato pure col carbone; e, da ultimo, in un anfratto misterioso e inquietante, la traccia, incisa nella pietra, di una colomba che si pretende fosse il simbolo del Dio-Spirito e che figurasse sul blasone dei cavalieri del Graal.
Una profonda melanconia mi coglie pensando che sono sul punto di lasciare per sempre il Sabarthès. Preparo i miei bagagli. Sto per abbandonare anche il povero micio che mi si era affidato più di un anno fa, e che aveva preso l’abitudine di accompagnarmi persino nelle grotte più fonde. L’amavo molto. Faceva mentire quei monaci del Medio Evo che giocavano sulla parola con la quale si indicavano gli eretici (Ketzer), pretendendo che essi fossero “falsi come gatti” (wie Katzen).
Fin quando vivrò penserò al Sabarthès, a Montségur, al castello del Graal, al Graal stesso, che forse è stato il tesoro degli eretici di cui parlano i registri d’inquisizione. Decisamente non sono stato abbastanza fortunato da scoprirlo!
Come mai in tutti i trattati Anticatari, in tutte le copiosissime deposizioni all’inquisizione sia in Italia che in Francia, o negli stessi scritti catari scoperti negli ultimi 40 anni non vi sia nulla, ma proprio nulla, che riconduce a miti misterici, grotte, templi, iniziazioni, etc? Anzi solo al leggere gli stessi scritti riuniti nella “cena segreta” di Zambon abbiamo un quadro opposto a questi temi cari a un esoterismo fermo al 1800.
Non so dove hai preso queste informazioni, dovresti essere più specifico. Il problema è che hanno fatto sparire ogni informazione a riguardo. “… nulla che riconduce a miti misterici, grotte, templi, iniziazioni, etc?” Un assurdità!
“…un esoterismo fermo al 1800.” Il sapere che tu chiami fermo al 1800, è un tipo di sapere immutabile nel tempo, derivato da una scienza antica – di migliaia o milioni di anni – e sacra di cui si possono trovare tracce, più o meno deformate e adattate, nei vari sistemi di pensiero. Anzi, gli adattamenti alla scienza moderna ed altro, hanno rovinato secondo me la teosofia.
“La Corte di Lucifero” di Otto Rahn è stata appena ristampata (dicembre 2016) dalle AGA Edizioni dopo un lavoro di ricerca durato 2 anni. Completamente ritradotta — così come in precedenza (2014), con un altrettanto intenso lavoro, è stata riproposta la V edizione di “Crociata contro il Graal” — e arricchita di un poderoso apparato di note esplicative. In quelle note si trovano tutte le riposte e le indicazioni documentaristiche che rispondono ai quesiti posti da Walt.
Grazie mille per l’informazione Marzio.