Uno Stato di cui l’O.N.U. ignora l’esistenza
L’autore tedesco K. K. Doberer, nel suo libro I creatori d’oro, dice: “Le sagge popolazioni dell’Atlantide intravidero una possibilità di sfuggire al pericolo emigrando attraverso il Mediterraneo, in direzione est, nelle immense terre asiatiche e nel Tibet, dove fondarono delle colonie”. Ecco un’ipotesi curiosa e forse vicina alla verità. I grandi sacerdoti e i principi della “Buona Legge”, probabilmente fuggirono per via d’aria, lontano dal pericolo, verso una terra remota, con i frutti della loro civiltà e le loro cognizioni tecniche. Installatisi in una piccola comunità completamente isolata, avrebbero potuto sviluppare la loro scienza e portarla ad altezze quali i nostri accademici neppure s’immaginano. In appoggio a questa teoria, apparentemente fantastica, ci sono numerose testimonianze.
Il canto epico del Mahabharata narra di un’era arcaica in cui i cieli erano solcati dagli aerei e bombe devastatrici cadevano sulle città. Si conducevano guerre brutali e il male regnava sovrano.
Sulla base dei testi antichi e delle leggende di numerose razze è possibile ricostruire un quadro degli avvenimenti che ebbero luogo alla vigilia della catastrofe che distrusse l’Atlantide.
Quando il piccolo gruppo di filosofi, di saggi e di chiaroveggenti capì che la civiltà dell’Atlantide era condannata e che il progresso dell’umanità era in pericolo, decise di ritirarsi in zone inaccessibili della Terra. Quegli eletti scavarono dei rifugi segreti nelle montagne e scelsero le valli nascoste in fondo all’Himalaya per conservarvi la fiaccola della civiltà nell’interesse delle generazioni future.
Quando l’oceano ebbe inghiottito l’Atlantide, le colonie dei sopravvissuti eressero un’Utopia evitando gli errori dell’Impero distrutto. Queste comunità, protette dall’isolamento, poterono prosperare lontano dalla barbarie e dall’ignoranza. Fin dall’inizio i coloni avevano deciso di rompere ogni contatto con il mondo esteriore, così la loro scienza poté progredire senza intralci e superare persino i risultati ottenuti dalla popolazione dell’Atlantide.
Si tratta di una fantasia? Eppure tutti sappiamo che un buon numero dei nostri scienziati raccomanda fin d’ora la costruzione di rifugi e persino di città sotterranee in previsione di una catastrofe atomica.
Lo spopolamento delle città e la costruzione di città sotterranee sono i progetti presentati oggi dagli scienziati responsabili, desiderosi di assicurare la continuità della razza umana.
E se gli studiosi contemporanei elaborano piani di questo genere, perché non ammettere che piani analoghi siano stati proposti e attuati dai capi spirituali dell’Atlantide quando dovettero affrontare la degenerazione morale della loro società e la minaccia di un’“arma di Brahama, splendente come diecimila soli”?
Il pensiero scientifico non respinge affatto l’idea di uno Stato possente, esistito in epoca lontanissima, dotato di cognizioni tecnologiche molto avanzate. Il professor Frederick Soddy, pioniere della fisica nucleare, cercando di dare una spiegazione alla tradizione scientifica dell’antichità, dichiarava nel 1909 che quella tradizione “poteva rappresentare un’eco delle precedenti e numerose epoche della preistoria, di un’era in cui gli uomini avevano già percorso il nostro cammino”.
Per conservare indefinitamente i frutti della civiltà minacciati da guerre devastatrici e da calamità geologiche non c’è nulla di più appropriato della costruzione di rifugi sotterranei. E se è vero ai giorni nostri perché non poteva essere vero all’epoca dell’Atlantide?
Il tempo ha strappato molte pagine della storia dell’uomo su questo pianeta, ma tutte le leggende parlano di un immenso disastro che distrusse una civiltà avanzata e trasformò la maggior parte dei sopravvissuti in selvaggi. E coloro che in seguito furono riabilitati da “messaggeri divini” poterono sollevarsi dallo stato di barbarie in cui erano caduti, dando così origine alle nazioni dell’antichità dalle quali discendiamo.
Le comunità segrete dei “Figli del Sole” erano poco numerose, ma dotate di grandi conoscenze. Poiché avevano raggiunto un elevato livello scientifico, poterono scavare una rete di tunnel, soprattutto in Asia.
L’isolamento era la legge severa che regnava in quelle colonie.
I filosofi, gli studiosi, i poeti, gli artisti, i religiosi, gli scrittori e i musicisti hanno bisogno di un ambiente tranquillo, pacifico. Non vogliono sentire il rimbombo degli stivali dei soldati né le grida del mercato. Nessuno si sognerebbe di accusare questi pensatori di essere dei mostri egoisti solo perché hanno voluto, attraverso i secoli, far partecipi del loro sapere unicamente quelli che vi erano preparati. Questo isolamento è per loro una protezione. La legge del più forte vale ai giorni nostri come ai tempi di Caligola.
E forse il pugno è ancor più terrificante nel suo aspetto tecnologico.
Isolati in valli sperdute o nascosti nelle catacombe, sotto le montagne, i Fratelli Maggiori della razza umana hanno proseguito la loro esistenza. Che queste colonie siano realmente esistite lo provano testimonianze che vengono da paesi lontanissimi tra loro, come l’India, l’America, il Tibet, la Russia, la Mongolia e molti altri ancora. A cinquemila anni di distanza ci restano queste testimonianze che, per quanto arricchite dalla fantasia, contengono pur sempre un elemento di verità.
Ferdinand Ossendowski, dell’Académie Francaise, riporta una strana storia che gli fu raccontata in Mongolia dal principe Chultun Beyli e dal suo Gran Lama una cinquantina d’anni fa. C’erano un tempo nell’Atlantico e nel Pacifico due continenti che poi sprofondarono nelle acque. Ma parte dei loro abitanti trovò scampo in vasti rifugi sotterranei. Queste grotte erano illuminate da una luce particolare che consentì la crescita delle piante e la sopravvivenza di una tribù perduta dell’umanità preistorica, che in seguito raggiunse un altissimo grado di conoscenza.
Secondo lo studioso polacco, questa razza sotterranea, denominata “Agharti”, avrebbe raggiunto un livello tecnico sorprendente. Avrebbe posseduto dei veicoli che circolavano con grande rapidità lungo un’immensa rete di tunnel nel cuore dell’Asia. Avrebbe studiato la vita sugli altri pianeti, ma i successi più notevoli li avrebbe riportati nel campo dello spirito puro.
Al celebre esploratore e artista Nicholas Roerich furono mostrati, durante un viaggio nel Sinkiang (Turkestan cinese), lunghi corridoi sotterranei. Gli indigeni gli raccontarono che talvolta da quelle catacombe strani individui uscivano per fare acquisti in città, e, ancor più strano, pagavano con monete antiche che nessuno era stato in grado di riconoscere.
Durante una sosta a Tsagan Kure, vicino a Kalgan, in Cina, Roerich scriveva un articolo intitolato “I guardiani” e datato 1935, nel quale si chiedeva se quegli uomini misteriosi che apparivano improvvisamente in mezzo al deserto non uscissero da un passaggio sotterraneo.
A questo proposito interrogò lungamente i mongoli e ottenne risposte molto interessanti. A volte quei visitatori stranieri arrivavano a cavallo e per non destare troppa curiosità si travestivano da mercanti, pastori o soldati. Spesso facevano dei regali ai mongoli.
Ebbene, non si può non tener conto della testimonianza di un uomo di fama internazionale. D’altronde l’autore di questo libro ha avuto l’onore di conoscere personalmente il grande esploratore a Shanghai, subito dopo la spedizione del 1935.
È interessante segnalare che il professor Roerich e i membri della sua spedizione videro apparire, nel 1926, un disco luminoso sopra la catena del Karakorum. In una mattina di sole l’oggetto era chiaramente visibile attraverso i tre potenti cannocchiali di cui disponevano gli esploratori. Mentre l’osservavano, la macchina circolare cambiò bruscamente direzione. Eppure quarant’anni fa nessun aereo o dirigibile sorvolava l’Asia centrale. Non può darsi che la macchina venisse da una colonia preistorica?
Durante la traversata della catena del Karakorum, una guida indigena raccontò a Nicholas Roerich che grandi uomini e donne bianchi erano apparsi in mezzo alle montagne da uscite segrete. Erano stati visti avanzare nell’oscurità con delle torce in mano. Secondo una delle guide questi misteriosi montanari avevano persino soccorso dei viaggiatori.
La signora A. David-Neel, che esplorò il Tibet, nomina nei suoi scritti un cantore tibetano, di cui si diceva che conoscesse la strada verso “la dimora degli dei”, sperduta in qualche zona tra il deserto e le montagne della provincia di Chinhai. Una volta, anzi, questo cantore le portò da quel nascondiglio un fiore blu sbocciato a venti gradi sotto zero. In quel momento il fiume Dichu era ricoperto da sei piedi di ghiaccio.
Lo Shambhala settentrionale
Una quarantina d’anni fa il dottor Lao-Tsin pubblicò su un giornale di Shanghai un articolo su un viaggio da lui compiuto in una strana regione dell’Asia centrale. In un racconto pittoresco che prefigura gli Orizzonti perduti di James Hilton, questo medico descrive la pericolosa scalata da lui effettuata sulle alture del Tibet in compagnia di uno yogi originario del Nepal. In una regione desolata in mezzo alle montagne, i due pellegrini giunsero a una valle nascosta, protetta dai venti del nord e con un clima molto più mite di quello del territorio circostante.
Il dottor Lao-Tsin parla poi della “torre di Shambhala” e di un gruppo di laboratori che destò il suo stupore. I due visitatori furono messi al corrente dei grandi risultati scientifici ottenuti dagli abitanti della valle. Poi assistettero a degli esperimenti telepatici effettuati a grandi distanze. Il medico cinese avrebbe potuto essere molto più preciso sul suo soggiorno in quella valle se non avesse promesso agli abitanti di mantenere il segreto.
A proposito dello Shambala settentrionale, dove oggi non c’è che un deserto di sabbia e un lago salato, un’antica tradizione orientale narra che un tempo in quel luogo c’era un mare immenso con una isola in mezzo, di cui attualmente non resta che qualche montagna, e che in epoca remotissima vi si produsse un avvenimento eccezionale:
Allora, con fragore terrificante, gli spazi celesti furono attraversati dal carro dei Figli del Fuoco, Signori delle fiamme di Venere, disceso rapidamente dalle alture inaccessibili e circondato di masse sfolgoranti che riempivano il cielo di lingue di fuoco; poi si fermò e restò sospeso sull’isola Bianca che si stendeva sorridente sul mare di Gobi.
Ricordando l’attuale controversia su una nave cosmica sfasciatasi a Tunguska, in Siberia, non possiamo liquidare con un semplice sorriso quanto ci dice l’antica leggenda sanscrita.
Il folklore e i canti del Tibet e della Mongolia esaltano il ricordo di Shambhala sino a trasformarla in realtà. Durante la sua spedizione attraverso l’Asia centrale, Nicolas Roerich arrivò un giorno a una roccia di frontiera bianca considerata come uno dei tre limiti dello Shambhala.
Per dimostrare fino a che punto i lama credessero nell’esistenza dello Shambhala, basterà citare le parole di un monaco tibetano, riferite dal Roerich: “Gli uomini dello Shambhala vengono talvolta su questo mondo per incontrare i loro collaboratori che lavorano sulla Terra. E a volte, per il bene dell’umanità, mandano doni, preziosi e reliquie””.
Dopo tutta una serie di studi sulle tradizioni dei buddisti tibetani, Csoma de Koros (1784-1842) situava la terra dello Shambhala oltre il fiume Syr-Daria, tra il 45° e il 50° parallelo di latitudine nord. E, particolare non meno curioso, su una carta pubblicata ad Anversa nel XVII secolo, è tracciata la regione dello Shambhala.
I primi viaggiatori gesuiti dell’Asia centrale, come padre Stephen Cacella, accennano all’esistenza di una regione sconosciuta chiamata Xembala.
Altri due famosi esploratori dell’Asia centrale, il colonnello N. M. Prjevalsky e il dottor A. H. Franke, citano nelle loro opere lo Shambhala. La traduzione del professor Gruenwedel di un antico tibetano (La via dello Shamballa) è anche essa un documento interessante. Pare tuttavia che le indicazioni geografiche in tutti questi scritti restino molto sul vago, e come tali non servono granché qualora non si conoscono a fondo i nomi antichi e moderni delle diverse regioni e dei numerosi monasteri. Ebbene, tale confusione è voluta di proposito. Coloro che effettivamente conoscono l’ubicazione di queste colonie non parleranno mai per non intralciare l’azione umanitaria dei Guardiani. D’altra parte i riferimenti a questi rifugi nella letteratura e nel folclore orientali appaiono contraddittori perché alludono a comunità installate in luoghi differenti.
Avendo personalmente questo problema per lunghi anni, e avendo redatto questo capitolo durante un soggiorno nell’Himalaya, sono giunto alla conclusione che col nome di Shamballa si sia voluto indicare non soltanto l’isola Bianca del Gobi, le valli e le catacombe nascoste in Asia e altrove, ma anche molte altre cose.
Lao Tze, fondatore del taoismo nel VI secolo a. C., cercò lungamente la dimora di Hsi Wang Mu, dea dell’occidente, e finì col trovarla. Secondo la tradizione taoista questa dea era una donna mortale vissuta migliaia d’anni. Dopo aver acquisito “attributi divini”, costei si ritirò nelle montagne del Kun Lun. Ebbene, i monaci cinesi affermano che c’è una valle di grande bellezza, inaccessibile a chi viaggia senza guida, dove, assieme a Hsi Wang Mu, vive un’assemblea di spiriti che sarebbero i più grandi dotti del mondo.
In questa prospettiva acquisterebbe un significato anche l’apparizione, agli occhi sbigottiti di Roerich e dei suoi colleghi, di una strana macchina sopra al Karakorum (che si trova a un’estremità del Kun Lun). Quello strano disco poteva venire dall’aeroporto di quegli esseri divini.
Sulla base di quanto abbiamo fin qui detto si può concludere che deve essere estremamente difficile entrare in contatto con i membri di quelle comunità segrete. Eppure di incontri con questi strani esseri ce ne sono stati, e più di quanto non si creda. Se non ne abbiamo notizia è perché chi visita quelle antiche comunità viene immancabilmente richiesto di mantenere il segreto per motivi più che validi. I “Mahatma” non vogliono essere disturbati da curiosi, da scettici o da cercatori di tesori, perché si considerano depositari e custodi della saggezza antica e delle ricchezze del passato.
E a questo punto mi pare utile citare un passo tratto da una lettera scritta da uno dei Mahatma per definire gli scopi della loro attività umanitaria:i Nel corso di innumerevoli generazioni, l’adepto ha costruito un tempio con rocce incorruttibili, una gigantesca torre del Pensiero infinito divenuta la dimora di un titano che, se necessario, vi resterà solo, e ne uscirà soltanto alla fine di ogni ciclo per invitare gli eletti dell’umanità a cooperare con lui e a contribuire anch’essi a illuminare l’umanità che vive nella superstizione.
Questo brano è stato scritto dal Mahatma Koot Humi nel luglio del 1881.
L’origine di queste comunità sconosciute si perde nella notte dei tempi. Con ogni probabilità furono i nostri predecessori nell’evoluzione della razza umana a ordinare la partenza dall’Atlantide agli uomini della “Buona Legge”.
Può darsi che queste colonie segrete conservino tutti i documenti e tutti i frutti dello spirito dell’Atlantide come doveva essere nel suo periodo di massimo splendore. Questa piccola repubblica non è rappresentata alle Nazioni Unite, eppure potrebbe essere il solo stato permanente del nostro pianeta e il custode di una scienza antica quanto le rocce. Gli spiriti scettici non debbono dimenticare che i messaggi dei Mahatma sono attualmente conservati negli archivi di alcuni governi.
La tradizione popolare russa tramanda una leggenda sulla città sotterranea di Kitezh, regno della giustizia. Gli “Antichi Credenti”, perseguitati dal governo zarista, si erano messi alla ricerca di questa Terra promessa. “Dove la troveremo?” chiedevano i giovani. “Seguite le tracce di Batu” rispondevano gli anziani. Il Khan Batu, conquistatore tartaro, era partito dalla Mongolia alla conquista dell’Occidente. Il paese dell’Utopia, cioè, si trovava in Asia centrale.
Un’altra versione della stessa leggenda sosteneva che la Terra promessa si trovasse in fondo al lago Svetloyar. Ma il lago è stato esplorato e non vi si è trovato nulla. In realtà la leggendaria città di Kitezh dovrebbe trovarsi accanto a quella situata nello Shambhala settentrionale.
Lo stesso si può dire per la leggenda di Belovodye. Nel 1903 il “Giornale della Società Geografica Russa” pubblicava un articolo firmato Korolenko e intitolato II Viaggio dei Cosacchi dell’Ural nel regno di Belovodye. A sua volta la Società Geografica della Siberia occidentale pubblicò, nel 1916, un resoconto di Belosliudov intitolato Contributo alla storia di Belovodye. Entrambi gli articoli, estremamente interessanti e degni di fede, parlano di una strana tradizione tramandata dai “Vecchi Credenti”. Vi si narrava di un paradiso terrestre sperduto chissà dove nel regno di “Belovodye” (letteralmente significa “Acque Bianche”) o di “Belogorye” (“Montagne Bianche”). Ebbene, non dimentichiamo che lo Shambhala settentrionale era stato fondato sull’”isola Bianca”.
La collocazione geografica di questo regno leggendario è forse meno vaga di quanto si possa credere a prima vista. Tra i numerosi laghi salati dell’Asia centrale, ce ne sono alcuni che periodicamente si seccano e si coprono di una coltre bianca. Il Chang Tang e il Kun Lun sono coperti di neve.
A Nicholas Roerich raccontarono, durante la sua spedizione tra i monti dell’Altai, che dietro il grande lago e gli alti monti c’era una “valle sacra”. Numerose persone avrebbero inutilmente cercato di trovare Belovodye. Altri vi sarebbero arrivati e vi avrebbero abitato per qualche tempo. Nel XIX secolo, in particolare, due uomini sarebbero giunti in quel paese leggendario e vi avrebbero vissuto per un breve periodo. Al loro ritorno avrebbero raccontato cose stupende su quella colonia perduta, aggiungendo però che “era stato loro proibito di parlare di molte delle meraviglie che vi avevano visto”.
Ebbene, il racconto ch’essi fecero ha molti punti in comune con quello, già menzionato, del dottor Lao-Tsin.
Un’altra testimonianza del Roerich ci dimostra che gli abitanti di quegli agglomerati segreti possedevano delle nozioni scientifiche. Un lama avrebbe visitato una di queste comunità e vi avrebbe incontrato, in uno stretto passaggio sotterraneo, due uomini che portavano una pecora di razza purissima. Se ne servivano per l’allevamento scientifico nella valle segreta.
Gli archivi vaticani conservano alcune rare testimonianze di missionari del XIX secolo secondo le quali gli imperatori della Cina, in tempi di carestia, avevano l’usanza di inviare delle deputazioni ai “Geni delle montagne” per sollecitarne i consigli. I documenti non indicano il luogo verso cui si dirigevano i corrieri cinesi, ma può trattarsi soltano di Chang Tang, di Kun Lun o dell’Himalaya.
Queste testimonianze dei missionari cattolici (come del resto gli Annali della Propagazione della Fede di monsignor Delaplace) accennano inoltre alla credenza dei saggi cinesi in esseri sovrumani che vivevano in luoghi inaccessibili della Cina. Le cronache descrivono questi “Protettori della Cina” come esseri apparentemente umani, ma fisiologicamene diversi dagli altri uomini.
Montagne sacre e città perdute
In tutto il mondo esistono un gran numero di montagne considerate come “dimore degli dei”. Questo vale soprattutto per l’India, paese nel quale ho scritto questo capitolo.
Gli indù attribuiscono un carattere sacro al Nanda Devi, al Kailas, al Kanchenjunga e a molte altre cime, ritenendo che su di esse risiedano gli dei. E c’è di più: non sono solo i picchi a essere considerati sacri, ma anche le viscere delle montagne.
Si ritiene che Siva abbia il suo trono sul monte Kailas (Kang Rim- poche). Altri sostengono che viva sul Kanchenjunga, mentre la dea Lakshmi da una di queste cime sarebbe salita in cielo. Analizzando questi miti, si ha l’impressione di un traffico nei due sensi attraverso lo spazio prodottosi in quell’epoca remotissima in cui gli dei si mescolavano agli uomini.
Sin dal momento in cui si è incamminata dalla barbarie sulla via della civiltà, la razza umana ha sempre creduto nell’esistenza di dei potenti e benigni, che vivevano in certe località terrestri e in determinate zone del cielo. Nella Grecia antica, per esempio, gli dei abitavano sul Parnaso e sull’Olimpo.
Secondo il Mahabharata, gli Asura vivono in cielo, mentre Pau- lomas e Kalakanjas risiedono a Hiranyapura, la città dorata che galleggia nello spazio; nello stesso tempo, però, gli Asura dispongono di palazzi sotterranei. I Naga e i Garuda, creature volanti, hanno anch’essi delle residenze sotterranee. Questi miti, insomma, alludono, in forma allegorica, a piattaforme spaziali, a voli cosmici e a basi terrestri per la partenza di questi voli.
I Purana citano le “Sanakadika” e gli “Avi delle Dimensioni spaziali”. L’esistenza di simili esseri, rifiutando la tesi dei viaggi spaziali nell’antichità, è assolutamente inspiegabile.
Poiché una navigazione interastrale sarebbe impossibile senza conoscenze astronomiche, non ci resta che accettare quanto affermato nel Surya Siddhanta, e cioè che Maya, signore di Atala (Atlan?), apprese l’astronomia dal dio del Sole, ovvero da una fonte cosmica.
Fossero greci, egiziani o indù, gli dei apparivano invariabilmente come benefattori degli uomini, ai quali fornivano cognizioni utili e consigli nei momenti critici.
Gli antichi testi indiani parlano del monte Meru come del centro del mondo. Oggi alcuni lo identificano col monte Kailas nel Tibet, altri sostengono che questo ipotetico monte si innalzi a 662.000 chilometri al di sopra della terra. Il monte Kailas sarebbe dunque una porta verso lo spazio esistito migliaia d’anni prima della distruzione dell’Atlantide?
Abbiamo già detto che tutti i popoli hanno delle leggende su esseri superiori che abitano la cima di determinate montagne. Nella mitologia degli indiani d’America del Pacifico nord-occidentale, il monte Shasta in California occupa un posto predominante. Una leggenda indiana, infatti, narra del Diluvio e parla di un antico eroe, detto Coyote, che corse sulla vetta del monte Shasta per aver salva la vita. L’acqua lo inseguì, ma non riuscì a raggiungere la cima. Allora, nell’unico punto rimasto asciutto, sulla vetta della montagna, Coyote accese un fuoco e quando le acque si ritirarono Coyote portò il fuoco ai rari superstiti della catastrofe e diventò il fondatore della civiltà indiana.
In questa e in altre leggende indiane si parla anche del Gran Capo degli Spiriti che in tempi remotissimi scese con la sua famiglia sul monte Shasta. E vi si narra anche delle visite che gli abitanti della terra facevano agli Uomini celesti.
Tutti questi miti sul monte Shasta potrebbero riferirsi ad avvenimenti del passato: il Diluvio, lo sbarco di aviatori o di astronauti e la costruzione di rifugi sotterranei nelle viscere delle montagne. Alcune colonie fondate in quei tempi remoti potrebbero esistere ancor oggi: numerose testimonianze avvalorano questa ipotesi.
Verso la metà del secolo scorso, durante la corsa all’oro in California, dei cercatori affermarono di aver visto dei misteriosi bagliori di luce sopra al monte Shasta. Talvolta era possibile scorgerli anche col tempo perfettamente sereno, quindi non poteva trattarsi di fulmini. E neppure poteva trattarsi di una sorgente elettrica, dato che a quei tempi in California non esisteva ancora l’energia elettrica.
In epoca più recente, sempre sulle strade che conducono verso il monte Shasta, sono state viste delle macchine sviluppare incendi senza apparenti ragioni.
Nel 1931 un incendio divampato tra i boschi di quella montagna fu bruscamente soffocato da una nebbia misteriosa. Ebbene, la linea di demarcazione dell’incendio, rimasta visibile per numerosi anni, descriveva una curva perfetta attorno alla zona centrale.
Nel 1932 il Los Angeles Times pubblicò un articolo molto curioso. L’autore, Edward Lanser, dopo aver lungamente interrogato coloro che abitavano alle pendici nel monte Shasta, sosteneva che da decine d’anni vi si conosceva l’esistenza di una strana comunità sulla montagna o nel suo interno. Gli abitanti di questo fantomatico villaggio erano dei bianchi, d’alta statura e d’aspetto nobile; avevano i capelli folti, portavano un legaccio sulla fronte e vestivano di bianco.
I negozianti del luogo sostenevano che in rare occasioni questi uomini entravano nelle loro botteghe per fare degli acquisti. Pagavano sempre con pepite d’oro per un valore molto superiore a quello delle merci acquistate. Se li si incontrava nella foresta, gli abitanti del monte Shasta cercavano di evitare qualsiasi contatto fuggendo o scomparendo nell’aria.
Uno strano bestiame appartenente a quel popolo appariva talvolta sulle pendici della montagna. Questo bestiame non assomigliava a nessuna delle razze conosciute in America.
Per aumentare il mistero, sul territorio del monte Shasta furono scorte delle astronavi. Non avevano ali e non facevano alcun rumore; a volte si tuffavano nell’oceano Pacifico e continuavano la loro traiettoria come navi o sottomarini.
Esiste dunque un rifugio di questi Uomini celesti in fondo alla montagna? Sarebbero davvero sfuggiti al Diluvio per via d’aria?
Sembra che anche nel Messico ci siano analoghe comunità segrete. Nell’opera Misteri dell’antica America del Sud, Harold T. Wilkins parla di un popolo sconosciuto che viveva nel Messico e scambiava mercanzie con gli indios. Si sosteneva che venisse da una città sperduta nella giungla.
Nei suoi racconti Roerich ci parla di uomini e donne misteriosi che abitavano nelle montagne e andavano a fare acquisti nel Sin- kiang pagando con antiche monete d’oro. Il Messico e il Turkestan sono separati da una grande distanza, eppure tra queste apparizioni di strani esseri ci sono molti punti in comune.
Nel suo Vagabondaggi attraverso le Americhe, L. Taylor Hansen narra di una coppia di americani che, alcuni anni orsono, sorvolava la giungla dello Yucatan su un aereo privato. Poiché erano rimasti senza benzina, i due furono costretti ad atterrare nella giungla, dove si trovarono davanti a una città segreta maya, così ben mimetizzata che dall’alto era impossibile scorgerla.
Questi Maya vivevano in tutto il loro antico splendore, completamente isolati dal mondo, per preservare intatta la loro civiltà che, incontestabilmente, affondava le sue radici nell’Atlantide. I due americani dovettero promettere di non rivelare dove si trovava la città. Dopo avervi soggiornato per un certo tempo, tornarono negli Stati Uniti molto impressionati del livello morale e intellettuale di quegli abitanti segreti del Messico.
L’illustre archeologo americano J. L. Stephens, nel suo Incidenti di viaggio in America centrale, Chiapas e Yucatan, racconta che nel 1838-1839 un sacerdote spagnolo vide sulle alture della Cordigliera “una grande città con torri bianche che scintillavano al sole. Le leggende locali affermavano che nessun uomo bianco era mai penetrato in quella città; che gli abitanti di essa parlavano la lingua maya e sapevano che gli stranieri avevano conquistato tutto il loro paese, ragion per cui uccidevano tutti i bianchi che cercavano di entrare nel loro territorio. Non conoscevano il denaro, non possedevano né cavalli, né bestiame, né muli, né altri animali domestici”.
Anche i conquistadores spagnoli conoscevano la leggenda azteca sugli avamposti forniti di viveri e tesori nascosti nella giungla: quando gli invasori sbarcarono nel Messico, l’esistenza di queste basi era quasi dimenticata. Scrive Verril: “Il fatto che non si sia mai scoperta una di queste città perdute, non prova assolutamente che non siano esistite o che non esistano ancora”.
Gli indios Quechua del Perù e della Bolivia sono convinti che nelle Ande ci sia una grande rete sotterranea. Tenendo conto degli straordinari risultati cui giunsero i costruttori dell’epoca pre-inca, non si vede perché non dovrebbero aver ragione.
Il colonnello P. H. Fawcett, ucciso nella giungla, dedicò tutta la sua vita alla ricerca di una città perduta che, secondo lui, avrebbe fornito la prova dell’esistenza dell’Atlantide. Sosteneva anche di aver trovato le rovine di questa città nell’America del Sud.
Tutte queste leggende di città perdute, di montagne sacre, di catacombe e di valli inaccessibili dovrebbero essere attentamente studiate senza opinioni preconcette. Forse potrebbero condurci alla scoperta di colonie abitate da discendenti del popolo dell’Atlantide o persino di razze ancora più antiche.