Dopo aver indicato il senso delle caste, occorre accennare a quella via, che in certo modo è al di sopra delle caste e che risponde all’impulso verso la realizzazione diretta della trascendenza, in termini analoghi a quelli dell’alta iniziazione, ma fuori dalle strutture specifiche e rigorose di quest’ultima. Mentre il paria è il sottocasta, il “caduto”, colui che è sfuggito alla “forma” per esser impotente di fronte ad essa, sì da tornare al mondo infero – l’asceta è il supercasta, è colui che si scioglie dalla forma perché rinuncia al centro illusorio dell’individualità umana e non attraverso la fedeltà alla propria natura e la partecipazione gerarchica, ma per mezzo di una azione diretta, volge verso il principio, da cui ogni “forma” procede.
Così nell’India aria quanto grande era la repulsione di ogni casta pel paria, tanto grande era, per contro, la venerazione da tutti nutrita per il sopra-casta, a cui – secondo una immagine buddhistica – va chiesta così poco l’obbedienza ad un dharma umano, quanto chi cerca fuoco si preoccupa della specie del legno atto, come combustibile, a produrre in egual modo fiamma e luce.
L’”ascesi” ha dunque un luogo ideale intermedio fra il piano della diretta superiorità olimpica regale e iniziatica e quello del rito e del dharma. Essa presenta inoltre due aspetti, due qualificazioni, che possono considerarsi come qualificazioni dello stesso spirito tradizionale in genere. Il primo aspetto dell’approssimazione ascetica è l’azione, come azione eroica; il secondo è l’ascesi in senso stretto, con riferimento soprattutto alla via della contemplazione. Di là da forme tradizionali complete, in tempi più recenti si sono sviluppate civiltà intonate più o meno all’uno o all’altro di questi due poli. E a suo luogo si vedrà che parte le due direzioni abbiano avuto nel dinamismo delle forze storiche anche su di un piano non privo di relazione col fattore etnico e razziale.
Per cogliere lo spirito di una tradizione ascetica allo stato puro, bisogna prescindere dai significati che al termine stesso “ascesi” si sono connessi nel mondo della religiosità occidentale più recente. Azione e conoscenza sono due facoltà fondamentali dell’uomo: e nell’ordine sia dell’una che dell’altra è possibile una integrazione, la quale vi rimuova il limite umano. L’ascesi della contemplazione è appunto l’integrazione della virtù conoscitiva ottenuta col distacco della realtà sensibile, con la neutralizzazione delle facoltà raziocinative individuali, con la denudazione progressiva del nucleo della coscienza il quale si “decondizionalizza”, si sottrae alla limitazione e alla necessità di ogni determinazione, sia reale, sia virtuale. Eliminata in tal modo ogni scoria e ogni ostruzione – opus remotionis – la partecipazione al sovra- mondo si compie sotto specie di visione o di illuminazione. Culmine dell’approssimazione ascetica, questo punto rappresenta in pari tempo il cominciamento di una ascesa veramente costante, progressiva e realizzatrice degli stati dell’essere superiori alla condizione umana. L’universale come conoscenza e la conoscenza come liberazione sono, in relazione a ciò, gli ideali essenziali della via ascetica.
Il distacco ascetico proprio alla via contemplativa implica la “rinuncia”. Appunto a tale riguardo bisogna prevenire l’equivoco propiziato da forme inferiori di ascesi. Si deve dunque rilevare il senso diverso che la rinuncia ha avuto nell’alta ascesi antica e orientale da un lato, dall’altro in gran parte dell’ascesi religiosa, specie cristiana. Nel secondo caso la rinuncia ha spesso presentato il carattere di una repressione e di una “mortificazione”; non perché non desidera più, ma per mortificarsi e “sottrarsi alla tentazione” l’asceta cristiano si distacca dagli oggetti del desiderio. Nell’altro caso la rinuncia procede invece da un disgusto naturale per gli oggetti che comunemente attraggono e che si desiderano, cioè dal fatto che si sente direttamente di desiderare – o, per dir meglio, di volere – qualcosa che il mondo dell’esistenza condizionata non può dare. In questo caso è dunque una naturale nobiltà del proprio desiderio a condurre alla rinuncia, non un intervento esteriore inteso a frenare, mortificare e inibire la facoltà di desiderio di una natura volgare. Del resto, il momento affettivo, anche nelle sue forme più dure e nobili, figura solo nei primi gradi dell’alta ascesi. In seguito esso è consumato dal fuoco intellettuale e dall’arido splendore della contemplazione pura.
Come esempio tipico di ascesi contemplativa si può indicare il buddhismo delle origini, sia perché esso è scevro di elementi “religiosi” e organizzato in puro sistema di tecniche, sia per lo spirito da cui esso è compenetrato e che è lontano da tutto ciò a cui si è ormai portati a pensare parlando di ascetismo. Pel primo punto, si sa che il buddhismo non conosce “Dei” in senso religioso: gli Dei gli appaiono come potenze esse stesse bisognose della liberazione, sì che lo “Svegliato”, come è superiore agli uomini, così lo è anche agli Dei. L’asceta, vien detto nel canone, si scioglie non solo dal vincolo umano ma anche da quello divino. In secondo luogo, norme morali non appaiono, nelle forme originarie del buddhismo, che a titolo di strumenti al servigio della realizzazione oggettiva di stati sopraindividuali. Tutto ciò che appartiene al mondo del “credere”, della “fede”, e che si lega a momenti affettivi, viene evitato. Il principio fondamentale del metodo è la “conoscenza”: far della conoscenza della non-identità del Sé con qualsiasi “altro” – sia pur esso il tutto o il mondo di Brahma (il dio teistico) – un fuoco che distrugga progressivamente ogni immedesimazione irrazionale con tutto ciò che è condizionato. Il punto di sbocco, oltre la designazione negativa (nirvana = cessazione dell’agitazione), è dato esso stesso, in conformità alla via, in termini di “conoscenza”: bhodi, che è conoscenza in senso eminente, illuminazione sovrarazionale, conoscenza che libera, come in un “risveglio” da un sonno, da un tramortimento, da una allucinazione. Che ciò non equivalga affatto alla cessazione della forza e a qualcosa, come una dissoluzione, vale appena rilevarlo. Dissolvere vincoli, non è dissolvere, ma liberare. L’immagine di colui che, libero da ogni giogo, sia divino, sia umano, è supremamente autonomo e può andare dove vuole, è ricorrentissima nel canone buddhista e si accompagna con ogni specie di simboli a carattere virile e guerriero, oltre che col costante ed esplicito riferimento non al non-essere, ma a qualcosa di superiore tanto all’essere che al non-essere. Il Buddha, come è noto, apparteneva ad un antico ceppo della nobiltà guerriera aria e la sua dottrina – presentantesi come “dottrina dei nobili, al volgare inaccessibile” – è quanto mai lontana da ogni evasione mistica, è compenetrata invece da un senso di superiorità, di chiarezza e di indomabilità spirituale – “libero”, “conoscitore”, “superbo”, “sovrano”, di cui “né gli dèi, né gli spiriti, né gli uomini conoscono la via”, il “Sommo, l’eroe, il gran vate vittorioso, l’impassibile, il Signore della rinascita”, è detto, nei testi originari, lo “Svegliato”. La rinuncia buddistica è del tipo virile e aristocratico già accennato, è dettata da forza, non imposta dal bisogno ma voluta pel superamento del bisogno e per la reintegrazione di una vita perfetta. Che i moderni, i quali conoscono solamente quella vita, che è mista a non-vita e che nella sua agitazione ha l’irrazionalità di una vera “mania” – quando sentono parlare, con riferimento allo stato dello “Svegliato”, di nirvana, cioè di una estinzione della mania, identica ad un “più che vivere”, ad una supervita, non possano pensare che al “nulla”, ciò è molto comprensibile: per un maniaco dire non-mania (nir-vana) non può significare che non-vita, che nulla. Epperò è naturale che lo spirito moderno abbia da tempo posti i valori di ogni alta ascesi fra le cose “superate”.
Come esempio occidentale di ascesi contemplativa pura si può indicare in primo luogo il neoplatonismo. È Plotino che con le parole: “Non io debbo andare agli dèi, sono gli dèi che debbono venire a me”, ha indicato un aspetto fondamentale dell’ascesi aristocratica; che con la massima: “Agli dèi bisogna rendersi simili, non agli uomini dabbene – non l’esser privi di colpa, ma il divenire un dio, è lo scopo”, ha superato decisamente la limitazione moralistica; che come metodo ha riconosciuto la semplificazione interiore quale via ad un esser assolutamente sé stessi in una semplicità metafisica, dalla quale scaturisce la visione e attraverso la quale – “come centro che si congiunge a centro” – si compie la partecipazione a quella realtà intelligibile, di fronte alla quale ogni altra è da dirsi “più non-vita che vita”, le impressioni sensibili apparendo come immagini di sogno, il mondo dei corpi come il luogo della „completa impotenza“, della „incapacità ad essere“.
Un altro esempio sulla stessa linea è la cosiddetta mistica tedesca, che ha saputo raggiungere apici metafisici di là del teismo cristiano. All’parola greca; plotiniana e alla distruzione dell’elemento „divenire“, o elemento samsarico, posta dal buddhismo come condizione pel „risveglio“, corrisponde la Entwerdung di Tauler. La concezione aristocratica dell’ascesi contemplativa si ritrova nella dottrina di Meister Eckhart. Come Buddha, Eckhart si rivolge all’uomo nobile e all’“anima nobile“, la cui dignità metafisica è testimoniata dalla presenza, in essa, di una „fortezza“, di una „luce“ e di un „fuoco“ – di qualcosa, di fronte a cui la stessa divinità, teisticamente concepita come „persona“, diviene qualcosa di esteriore. Il metodo è essenzialmente quello del distacco – Abgeschiedenheit; virtù, questa, che per Eckhart è più alta di amore, carità, umiltà o compassione. Il principio della „centralità spirituale“ viene affermato: il vero Io è Dio, Dio è il nostro vero centro e noi siamo solo esteriori rispetto a noi stessi. Né speranza, né paura, né angoscia, né gioia o dolore, „nessuna cosa, che ci possa portar fuori di noi stessi“, deve penetrare in noi. L’azione determinata dal desiderio, anche se suo oggetto dovesse essere il regno dei cieli, la beatitudine e la vita eterna, viene respinta. La via procede dall’esterno all’interno, di là da tutto ciò che è „immagine“, di là dalle cose e da ciò che ha qualità di cosa (Dingheit), di là dalle forme e dalla qualità della forma (Foermlichkeit), di là dalle essenze e dall’essenzialità. Dal graduale estinguersi di ogni immagine e di ogni forma, poi del proprio pensiero, volere e sapere, procede una conoscenza trasformata, portata oltre la forma (ueberformt) e sovrannaturale. Con ciò si giunge fino ad un apice, rispetto al quale lo stesso „Dio“ (sempre secondo la sua concezione teistica) appare come qualcosa di transitorio, a quella radice trascendente e „non creata“ del Sé che, se potesse essere negata, nemmeno „Dio“ esisterebbe. Tutte le immagini proprie alla coscienza religiosa vengono divorate da una realtà, che è assoluto, nudo possesso e che nella sua semplicità non può non aver un carattere pauroso per ogni essere finito. Di nuovo, si presenta il simbolo solare: di fronte a questa sostanza denudata e assoluta, „Dio“ appare come luna di fronte a sole: con la sua radianza essa fa impallidire la luce divina, come quella del sole sopraffà la luce lunare.
Dopo questo cenno sul senso dell’ascesi contemplativa, si dirà qualcosa circa l’altra via, circa la via dell’azione. Mentre nell’ascesi contemplativa si tratta di un processo soprattutto interiore, in cui in primo piano sta il tema del distacco e il diretto orientamento verso la trascendenza, nel secondo caso si tratta di un processo immanente, volto a destare le forze più profonde dell’entità umana e a portarle a superare sé stesse, a far sì che, in una intensità-limite, dalla vita stessa si liberi l’apice della supervita. Tale è la via eroica secondo il significato sacro che essa spesso ebbe nell’antichità tradizionale d’Oriente e d’Occidente. La natura di una tale realizzazione fa sì che essa presenti simultaneamente un aspetto esteriore e uno interiore, uno visibile e uno invisibile – mentre l’ascesi contemplativa pura può anche cader del tutto in un dominio, che da nulla di tangibile sia congiunto al mondo esteriore. Quando i due poli dell’approssimazione ascetica non sono separati divenendo, l’uno o l’altro, la “dominante” di un tipo distinto e particolare di civiltà, ma sono invece compresenti e solidali, può dirsi che l’elemento ascetico alimenta invisibilmente le forze di “centralità” e di “stabilità” di un organismo tradizionale; mentre l’elemento eroico ha maggior rapporto col dinamismo, con la forza animatrice delle sue strutture.
In relazione alla via dell’azione, si dirà qualcosa anzitutto sulla dottrina della guerra santa, poi sui giochi. Ad un tale argomento qui sarà dato un qualche sviluppo, per l’interesse che esso dovrebbe avere per l’uomo occidentale, il quale, secondo la sua natura, è più portato all’azione che non alla contemplazione.